Alda Merini: il suo racconto dal manicomio

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16/07/2010 21:06:40
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Giada

Alda Merini: il suo racconto dal manicomio

La grande poetessa Alda Merini è scomparsa domenica 1° novembre 2009 a Milano, a 78 anni.

Ecco l'articolo che aveva scritto per OK, con il racconto degli anni duri in manicomio, dei farmaci e dei rapporti con il marito.

Testo di Alda Merini

«Quando venni ricoverata per la prima volta in manicomio, ero poco più di una bambina, avevo sì due figlie e qualche esperienza alle spalle, ma il mio animo era rimasto semplice, pulito, in attesa che qualche cosa di bello si configurasse al mio orizzonte; del resto, ero poeta e trascorrevo il mio tempo tra le cure delle mie figlie e il dare ripetizione a qualche alunno, e molti ne avevo che venivano e rallegravano la mia casa con la loro presenza e le loro grida gioiose.

Insomma, ero una sposa e una madre felice, anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente. Provai a parlare di queste cose a mio marito, ma lui non fece cenno di comprenderle e così il mio esaurimento si aggravò e, morendo mia madre, alla quale io tenevo sommamente, le cose andarono di male in peggio, tanto che un giorno, esasperata dall'immenso lavoro e dalla continua povertà e poi, chissà, in preda ai fumi del male, diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un'ambulanza, non prevedendo certo che mi avrebbero portata in manicomio.

Fu lì che credetti di impazzire

Ma allora le leggi erano precise e stava di fatto che ancora nel 1965 la donna era soggetta all'uomo e che l'uomo poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire.

Fui quindi internata a mia insaputa, e io nemmeno sapevo dell'esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, ma quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso: mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica a uscire.

Mi ribellai. E fu molto peggio

La sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos infernale. Dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti.

Non era forse la mia una ribellione umana? Non chiedevo io di entrare nel mondo che mi apparteneva? Perché quella ribellione fu scambiata per un atto di insubordinazione? Un po' per l'effetto delle medicine e un po' per il grave shock che avevo subito, rimasi in istato di coma per tre giorni e avvertivo solo qualche voce, ma la paura era scomparsa e mi sentivo rassegnata alla morte.

Quella scarica senza anestesia

Dopo qualche giorno, mio marito venne a prendermi, ma io non volli seguirlo. Avevo imparato a risconoscere in lui un nemico e poi ero così debole e confusa che a casa non avrei potuto far nulla.

E quella dissero che era stata una mia seconda scelta, scelta che pagai con dieci anni di coercitiva punizione. Il manicomio era sempre saturo di fortissimi odori. Molta gente addirittura orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o che cantava sconce canzoni.

Noi sole, io e la Z., sedevamo su di una pancaccia bassa, con le mani raccolte in grembo, gli occhi fissi e rassegnati e in cuore una folle paura di diventare come quelle là.

In quel manicomio esistevano gli orrori degli elettroshock. Ogni tanto ci assiepavano dentro una stanza e ci facevano quelle orribili fatture. Io le chiamavo fatture perché non servivano che ad abbrutire il nostro spirito e le nostre menti. La stanzetta degli elettroshock era una stanzetta quanto mai angusta e terribile; e più terribile ancora era l'anticamera, dove ci preparavano per il triste evento.

Ci facevano una premorfina, e poi ci davano del curaro, perché gli arti non prendessero ad agitarsi in modo sproporzionato durante la scarica elettrica. L'attesa era angosciosa. Molte piangevano. Qualcuna orinava per terra.

Una volta arrivai a prendere la caposala per la gola, a nome di tutte le mie compagne. Il risultato fu che fui sottoposta all'elettroshock per prima, e senza anestesia preliminare, di modo che sentii ogni cosa. E ancora ne conservo l'atroce ricordo».

Alda Merini (scritto per OK La salute prima di tutto nel maggio 2006)

02/09/2010 21:05:21
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Massimiliano Rossi

R: Alda Merini: il suo racconto dal manicomio

inserito il link al sito ufficiale di alda merini

03/09/2010 21:34:22
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R: Alda Merini: il suo racconto dal manicomio

Ringrazio tanto Giada per aver riportato questa testimonianza. Solo il pensiero di quello che hanno dovuto subire tante persone in così tanti anni rabbrividisco! Un'altra triste e silenziosa pagina di storia del nostro paese.