ANTONIO TABUCCHI da "L'ESPRESSO " 19 Settembre 1986

""Cara Milena,rispondo alla tua cartolina con un mese di ritardo, dovrai scusarmi, ma non mi trovavo bene di salute; ora mi trovo un poco meglio. Come stai? Cara Milena! Io ne conoscevo un' altra a Roma, che si chiamava Milena, ma è defunta...
C'era una volta...Kafka! diranno subito i miei istruiti lettori. No, cari lettori, c'èra una volta un pazzo. Questa letterina, che ho messo in apertura proprio perche' grazie a Milena, alla malattia e all'ironia macabra (conoscevo an'altra Milena, ma è defunta) foste tratti in inganno, non appartiena a Kafka.Appartiene a una persona che semmai Kafka avrebbe potuto scegliere come protagonista di una sua novella e che si chiama N.O.F.4( per usare la sigla della sua firma), cioè NANNETTI ORESTE FERNANDO. N.O.F.4 è autore di un libro conturbante fatto, come tutti i libri, di migliaia di parole. Migliaia di parole che però non sono state scritte su pagine, ma graffiate su centinaia di metri di muro.
Grazie all'iniziativa di una Unità Sanitaria Locale (proprio così, una delle tante famigerate USL, in questo caso la benemerita USL n° 15 di Volterra), questo "libro" è diventato un normale libro di carta e stampato dall'editore Pacini come supplemento alla rivista "Neopsichiatria" diretta dal professor Pellicanò. Dell' esistenza dell'opera di Nannetti mi aveva messo al corrente un paio di anni fa il mio amico Amedeo Cappelli, un linguista che con Antonio Zampolli lavorava in quella straordinaria fucina di "scienziati creativi" che è l'Istituto di Linguistica Computazionale di Pisa. Mi ero sempre ripromesso di andare a vedere l'opera dal vivo senza mai trovare il tempo per farlo. Ma ora che lo scritto di Nannetti mi è capitato tra le mani in forma di libro di carta, non ho potuto fare a meno di recarmi a Volterra per vedere dal vero il "libro di pietra": quello che in undici anni di manicomio Nannetti Oreste Fernando ha scritto sulla superficie che recludeva la sua persona fisica.
la storia di Fernando Nannetti è la seguente.E' nato a Roma nel 1927 da padre ignoto. Nel 1934 viene accolto da un istituto di carita'. Nel 1937 entra in un istituto per minorati psichici dal quale viene dimesso perchè sofferente di una malattia ossea e ricoverato al Forlanini di Roma. In seguito per un episodio di cui ignoro gli estremi, è incolpato di resistenza a pubblico ufficiale e sottoposto a perizia psichiatrica. Assolto dal reato per "vizio totale di mente" viene assegnato al manicomio giudiziario dell'Ospedale psichiatrico di Volterra. Nel 1961 passa alla sezione civile dello stesso ospedale. Nel 1972 viene dimesso dal manicomio e ospitato, con una pensione del comune di Roma, all'Istituto Bianchi di Volterra dove attualmente vive.
Per undici anni, dal 1961 al 1972, graffiando il muro con tante fibbie della divisa da ricoverato, N.O.F.4 ha scolpito sul muro del manicomio una storia sconnessa e misteriosa intercalandola con raffigurazioni umane e disegni geometrici. Un messaggio lungo 180 metri di muro del quale restano oggi 53 metri per un'altezza di 120 centimetri.
IL LIBRO DI N.O.F.4
Ma cos'è questo "libro" e cosa racconta? Faccio questa domanda a me stesso, perchè il "libro" di N.O.F.4 possiede una palese caratteristica narrativa: esso cioè vuole "raccontare" qualcosa. Che cosa racconta dunque il libro di pietra di N.O.F.4? Esso narra prima di tutto la privata odissea di Nannetti e il suo viaggio verso ITACA( che è chiaramente nominata). Narra della sua famiglia, in una sorta di motivo ricorrente: una famiglia che consiste in una tribù somatica di appartenenza (le persone di questo clan sono tutte "ALTE, MORE, SPINACEE, COL NASO A IPSILON) e che non ha niente a che vedere col nucleo dei consanguinei di Nannetti, che egli non ha mai conosciuto( nessuno, in tutti questi anni, ha mai fatto visita a Fernando Nannetti). Sono, chiamiamoli così, i suoi fratelli somatici d'elezione, e possono essere Pio XIII, un certo Alberto la scimmia Corazzi e Amedeo di Savoia. E poi parla del padre, attraverso il precetto" ricordati di santificare il padre". Un padre, naturalmente, che Nannetti non ha mai conosciuto. Ma il libro è anche una sorta del mondo con il ricordo della Genesi ("Adamo e Noè e la sua arca...Eva e l'albero di melo e la vipera"), con una cosmografia, con una descrizione fantastica del cielo, delle stelle e dei pianeti, con elementi autobiografici. E poi c'è l'orrore della guerra("il passo chiodato avanza su tutta Europa senza contrasti territoriali"), ci sono fucilazioni immaginarie, morti misteriose dolore per la morte, percorsi onirici, una sorta di calendario o di scansione del tempo cronologico.
Un libro che contiene, nella distorsione della follia, cio' che contengono molti libri della storia degli uomini: cosmogonie, guerre, misteri, dolori, allegrie, religiosità, paura, amore e morte.Mi rendo conto che un caso del genere postulerebbe un discorso di ordine psichiatrico.Eppure la USL n° 15 di Volterra invece di privilegiare il problema psichiatria-scrittura e di confinare l'opera in un ambito medico, ha lasciato che dello scritto del Nannetti si occupassero degli artisti: lo SCULTORE volterrano MINO TRAFELI( il libro di Nannetti è anche un'opera scolpita), il suo assistente ALDO TRAFELI, che ha pazientemente decifrato e trascritto alcuni frammenti del libro, e GIULIANO SCABIA, che ha scritto una prefazione molto bella intitolata "Il Libro della vita".
Le fotografie dell'originale, eseguite con grande rigore tecnico sono di PIER NELLO MANONI. Che cosa vuol dire questo silenzio dei medici intorno al libro del Nannetti?Presumo che con questo atto di discrezione gli psichiatri della USL Volterrana abbiano voluto dire fondamentalmente una cosa: che se la malattia mentale è un mistero, lo è anche la scrittura e che in manifestazione come questa ciò che predomina non è forse tanto il mistero della follia quanto il mistero della scrittura.MINO TRAFELI nel suo testo sul risvolto di copertina, riconduce il caso della scrittura di Nannetti al fatto dell'espressione poetica:" il rapporto che N.O.F.4 ha stabilito con il suo profondo ci fa riflettere su cosa sia la poesia, che può essere fatta con sapienza, con poca sapienza o con poca sapienza scardinata". Certo è che questa "poca sapienza scardinata" ha destato una viva impressione in JEAN DUBUFFET che poco prima di morire ha scritto a TRAFELI per esprimergli la sua ammirazione di fronte alle "extraordinaires inscriptions" di Fernando Nannetti. Così una viva impressione ha destato Nannetti nel conservatore della svizzera COLLETION de l'ART BRUT, Michel Thevoz, che parla di un caso mai visto prima, E infatti Giuliano Scabia, nella sua prefazione, si pone degli interrogativi che desidero riportare integralmente." Che cos'è lo scrivere? Un colloquio col corpo della madre, come ha suggerito Barthes? O un tentativo di dominare il mondo interiore.O di fermare il tempo. O di dare imprecisione all'impreciso. O una tecnica per nascondere un segreto.O per svelarlo.O una forma di malinconia.O uno strumento di potere.O un tracciato dell'impotenza.O un segno a cui affidare le speranze dell'immortalità.O un frammento concreto del bisogno di memoria, memoriale. O una reliquia preziosa della civiltà. O un atto sacro. O una tecnologia della mente rivolta come il camminare delle formiche, a un avanti noto e sconosciuto.Nella scrittura le religioni storiche hanno realizato i loro Dei.Dalla decifrazione della scrittura ci è pervenuta la comprensione più vasta di civiltà estinte.La scrittura va sempre più massicciamente a confluire nelle memorie elettroniche.In quelle scritture specchiati, battendo sui tasti, cominciando a risponderci.E il LIBRO MURALE di NANNETTI? Su questo interrogativo si ferma anche il mio viaggio di ricognizione lungo l'edificio ormai vuoto del manicomio di San Girolamo.Sulla balaustra di questo muro, durante questi ultimi anni trascorsi a Volterra da uomo libero, Nannetti è ritornato tutte le mattine a continuare la sua scrittura, sulla superficie di un muro largo 22 centimetri e lungo 106 metri.La fine della sua storia che resta senza decifrazione.Coperto da rovi e dalle erbacce, anche quest'ultimo racconto sul manicomio deserto sta lì come testimonianza.


ANTONIO TABUCCHI da "L'ESPRESSO " 19 Settembre 1986

 

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