La villa dei viaggiatori

E’ bello ritagliarsi dei momenti nella giornata quotidiana dedicati al ricordo di esperienze passate.

Questa volta ci troveremo alle 7 del mattino circa nella sala colazione dell’albergo, poi correremo verso la stazione del freddo capoluogo, cambieremo treno, passeremo sotto gli sguardi indispettiti dei condomini facendo finta di niente e…entreremo in una dependance sbagliata trovando comunque qualcosa di bello da fotografare per poi…andare oltre una collinetta abbattendo i rovi con i cavalletti…

 

Screew…op…di qui no…di qui si!

Con improbabile agilità entro nella dimora, tu e Marco volete essere i benvenuti?

Adesso cominciamo a giocare.

 

Impossibile non venire soggiogati dai fili invisibili dell’istinto che muovono le gambe attraverso le cornici pesanti delle porte divelte conducendo alle numerose sale dai pavimenti di legno.

Un silenzio riposante rigenera l’animo che a poco a poco si quieta ed entra in armonia con lo spirito della villa dei viaggiatori. La dimora di metà Ottocento dedicata alla moglie del noto industriale è una casa nobile dai soffitti di legno affrescati, la carta da parati colorata ma stracciata e dagli arredi fini e densi di ricordi.

 

In musica ogni brano è formato da alcuni cues, ossia dei motivi che contraddistinguono le particolarità della melodia: i leitmotiv architettonici di questa dimora risiedono nelle tracce che poco a poco scopriamo durante l’esplorazione: aprendo le ante dell’armadio dai motivi orientali troviamo gli adesivi dei calciatori, in un piccolo stipite conchiglie, cocci di una piccolo portagioie e una scatola dalla scritta in cirillico янмарь (‘yanmar’ che in russo significa ambra).

Un piccolo cartoncino dall’aria estremamente vintage riproduce il monte Fuji riportando il nome di un hotel nipponico, in un angolo è appeso un cappello nepalese: questa è la villa dei viaggiatori e il suo essere è un meta-viaggio nella storia di una famiglia benestante e dei suoi souvenir.

 

Nella cucina buia, a poco a poco che la vista si abitua, possiamo trovare, sotto al vetro del tavolo della cucina, una fotografia di un uomo sorridente a fianco di un aeroplano: l’avventura non finisce mai. Siamo guidati dai raggi di luce asimmetrici che filtrano dalle tapparelle e dagli stracci delle tende rosa antico, in preda ad una verve emozionale che ci fa perdere la dimensione temporale.

Dalla sala medievale con il camino d’epoca filtriamo come spettri nella stanza buia dalla poltrona sola: l’ampio salone di legno era arredato da vetrinette, ora fracassate, e sicuramente custodi di memorie preziose ora trafugate.

La scala solida dal manico in ferro battuto è un cammino di elevazione verso il secondo e terzo livello dell’avventura: ogni porta della villa è completata da un mazzo di vischio ma dov’è l’amore?

Crollano i pensieri sulla situazione personale opprimendo brevemente l’animo che può scuotersi soltanto proseguendo il cammino verso il brivido: la mansarda luminosa è un insieme di assi vertiginoso dove il pavimento inclinato, e a tratti insicuro fa motivare la voce di Marco in una richiesta tacita: ‘Macchiavelli, è tardino…andiamo alla serra?’

 

-Già La serra!-

 

Comprendiamo dove siamo soltanto quando usciamo dalla dimora della famiglia, per entrare in quello che è un autentico giardino di inverno, abbandonato, in stile orientale: il soffitto a cassettoni di legno riproduce angeli e aironi neri mentre tutto intorno, le pareti, sono arricchite da piastrelle che riproducono pappagalli colorati e Cacatua.

Le lanterne di legno sono eternamente spente in questo luogo magico dove davvero il tempo si è saturato di immagini, la vista dilatata e il

viaggio, ahimè, concluso.

 Elvira Macchiavelli

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